Tre ragazzi, il punk e quella birra nata dalla (fottuta) pandemia

Difficile che una sola frase possa definire una storia. Né tantomeno una birra: per quella serve, parecchio, anche il palato. E ci arriveremo.
Nel caso di Paul Wyatt, Maurizio Salerno, Cristian Innocenti e la loro Wyatt Brewing, però, l’eccezione fa capolino. E spiega. Tanto.
Spiega come si è potuta utilizzare in modo proficuo la sospensione (del lavoro, delle certezze) occorsa nei primi mesi della fottuta (niente asterischi) pandemia. Spiega un modo scanzonato di porsi nei confronti della vita e delle avventure. Spiega un’amicizia nata da passioni condivise e diventata passione alla seconda. Spiega che dietro a una miscela di luppoli e malto c’è spesso un mondo da scoprire.
Il risultato del sogno coltivato “during the f*ck*ng pandemic” lo abbiamo davanti sotto forma di boccale, in una sera qualunque di questo febbraio. È il nostro primo passo, un primo passo molto aromatico, un po’ agrumato e con qualche nota balsamica, colorato di ambra e dal gusto pieno.
Vicino anche alcune lattine. Ecco, non le solite lattine. In una campeggia un teschio con un cappello che ha una visiera all’insù, in un’altra una ragazza degusta una birra sullo sfondo di un vulcano che erutta. C’è il surf, ci sono montagne dove il surf si trasforma in snowboard, ci sono le Vans, ci sono quattro strisce nere che riprendono il logo dei Black Flag, c’è la “Madonnina” di Milano che fa un trick con lo skateboard. È un’immersione nella cultura punk/hardcore: e mentre noi ci tuffiamo, qualcuno probabilmente sta facendo la stessa cosa in un pub di Parigi.
«Come si chiama questa birra?» chiediamo ingenui… «Fuck You That’s My Name», è la risposta.
Ok, è ora di arrivare a loro.
Perché dietro a un boccale che si riempie c’è sempre un uomo. In questo caso tre. Paul, di Vergiate, professione pilota di aerei di linea. Maurizio, di Gallarate, assistente di volo. Cristian, anche lui di Gallarate, responsabile logistica. È solo l’inizio di una collezione di punti in comune. Si incontrano al birrificio di Vergiate e scoprono che la lista è davvero lunga: oltre al mondo professionale, c’è soprattutto la musica. Punk/hardcore, appunto. Paul ha suonato, Maurizio ha fatto il regista di trasmissioni dedicate presso la mitica Radio Lupo Solitario. E poi sì, ovvio, c’è lei, la birra: il primo la produce in casa un po’ da sempre, per gioco e per gusto, come tanti; il secondo è un degustatore; il terzo, l’uomo dei conti.
Il resto è storia degli ultimi due anni, storia dell’ultima novità nel contesto delle birre artigianali del nostro territorio. I tre iniziano davvero a produrre, ma a casa di Paul ci rimangono peraltro molto poco: passano a un birrificio della zona, poi a un altro un po’ più grande, poi ad uno più grande ancora. L’ultimo conto dei litri messi in commercio segna novanta ettolitri.
Sì, perché l’idea piace. E decisamente non solo a loro. Trovano estimatori, iniziano a vendere, online (wyattbrewing.it il loro sito; @wyatt_brewingco le pagine Instagram e Facebook ufficiali), e a distribuire, presso i locali. Oggi una Wyatt si può bere in Lombardia, in Veneto, in Liguria, in Piemonte, in Svizzera, persino, come scritto, a Parigi.
«Il segreto è che facciamo ciò che ci piace» ti dicono, commentando l’exploit. E nella regola aurea entra anche una certa ortodossia birraia. Niente mode, «solo birre che possano durare nel tempo». In questo caso tre: una “classica”, una Tropical IPA, chiara e leggera (4%) ma molto profumata e “gluten free”, «di quelle che puoi berne quante ne vuoi senza sentirti in colpa»; un’altra chiara, la Kolsch Style, 4,9%, dorata e rinfrescante, con un profilo dolce che ricorda il miele millefiori ed il pane fresco; e infine la già citata “Fuck You That’s My Name”, dal nome di una canzone del gruppo californiano “No use for a name”, 6,66%, ambrata, a base maltata e dal gusto rotondo e pieno.
Idee chiare. Come quelle per il marketing, perché «un prodotto deve essere anche bello». Ed è qui che la commistione tra Paul e Maurizio, il loro fare «ciò che ci piace» esce in tutta la sua semplice ma inesorabile forza, con quei rimandi al punk/hardcore e alla cultura surf resi plastici dai disegni di Alessandro Nicoli in un “packaging” che non può non catturare l’attenzione. Funzionale, in tal senso, anche la scelta delle lattine, più personalizzabili ma non solo. Sfatiamo infatti il mito del “discount”, proprio dell’incompetenza: «Le lattine si raffreddano più in fretta e garantiscono una qualità maggiore, essendo esposte a un rischio di deterioramento inferiore al vetro».
È l’ultimo passo, per ora, anche se gli assaggi continuano. Nella testa una canzone dei Punkreas, una serata al Nautilus e un fuck you, si spera definitivo, alla pandemia.