Otto marzo, Danieli: “A proposito di donne e di feste”

SARONNO Riceviamo e pubblichiamo la nota di Patrizia Danieli componente della commissione pari opportunità per il partito democratico.
“Smettetela di farci la festa” è una pubblicazione del mese di febbraio 2021 e trovo che il titolo sia profondamente evocativo. Perché la “festa delle donne” non è una festa. Vi invito a riflettere se nella nostra storia questa data sia passata come tale e probabilmente la risposta è si. Tante lodi, tante parole emozionanti tramutate magari in versi che dipingono le donne come esseri amorevoli e coraggiosi, pacifiche e sensibili, forti e tenaci: somigliano, a mio avviso, più a ciò che viene indicato come sessismo benevolo che come attenzione, ascolto, impegno, occasione di conoscenza.
Le donne non sono speciali. Le donne sono esseri umani. Come tali possono avere tutti i difetti e tutti i talenti del mondo. La fatica delle donne non è un vanto per nessuno, la fatica delle donne è un problema. Un problema che trova risonanza nello spazio pubblico solo da pochi decenni. In Italia non si registrano uomini che chiedono il part time per esigenze di “conciliazione”, le donne sono la maggior parte dei/delle dottorandi/e in medicina, ma solo il 14% dei/delle direttori/e di struttura ospedaliera è donna. Solo il 21% delle/dei docenti a contratto è donna. Eppure quelle donne, spesso erano le ragazzine più brave della classe. Gli uomini sono educati all’ambizione, fin dalla prima infanzia. Lo dicono le ricerche sul conservatorismo nei libri di testo. Nelle storie, cosa fanno le (poche) protagoniste che ci sono? Sono maestre, infermiere, estetiste, baby sitter. Sono sensibili, delicate, tenaci, sorridenti. E i protagonisti? Sono pirati, avventurieri, scienziati, esploratori. Sono spavaldi, intrepidi, curiosi. Qualcosa si sta muovendo solo negli ultimi due anni.
Ma intanto intere generazioni di donne e uomini hanno fatto o rischiato di fare scelte adattive. La letteratura scientifica la chiama autosegregazione formativa: un processo per il quale, alcune scelte che sembrano autentiche rispondono in realtà alle aspettative della società dominante. Costituiscono queste aspettative i luoghi comuni, i modi di dire. “E’ vivace perché è maschio”; “da grande starà più con la mamma perché è femmina”. Se lo crediamo succederà. Succederà perché facilmente i piccoli e le piccole tendono ad assecondare le aspettative degli adulti: questo soddisfa un bisogno primario, quello di essere amati/e, di sentirsi appartenenti. Poi arriva il momento di iscriversi all’università e le facoltà scientifiche vedono il 90% di maschi, mentre le facoltà pedagogiche, psicologiche e umanistiche quasi il 90% di donne. L’insegnamento e la cura: una segregazione orizzontale, come fossero una prosecuzione delle attività domestiche. Poi il Miur incentiva attività scientifiche (Stem, Science, Technology, Engineering and Matematics) per le ragazze, ma i ragazzi sono dimenticati.
La cura, in realtà è una cultura che può essere declinata anche al maschile. Ma tradizionalmente il maschile è associato al privilegio, e allora “Chiamatemi sindaco, non sindaca”. E sui giornali si è letto che “Il primo ministro ha partorito”. Frasi prive di concordanza, ma il problema non è grammaticale: è culturale.
Poi arriva la pandemia. Ma anche senza pandemia: se non ci sono nonni e nonne che possono aiutare i genitori nella crescita di piccoli piccole, chi si occupa di conciliare la vita lavorativa (che tendenzialmente prevede un lavoro full time in presenza, perché basato su un modello lavorativo nato negli anni ’50: quando qualcuno stava a casa a tempo pieno)? Tendenzialmente chi, nella coppia guadagna di meno. Secondo ciò che ho descritto, chi guadagnerà di meno nella coppia? Le donne. In pandemia le esigenze famigliari sono ancora più impellenti e il ramo va a incrinarsi dove già era debole. Ed ecco la lente di ingrandimento sulla condizione tra i sessi. Una condizione di gestione del potere, in modo più o meno consapevole.
Nonostante le difficoltà e le drammatiche limitazioni che stiamo vivendo, ci troviamo in un periodo storico fortunato sotto questo punto di vista. Gli studi sul linguaggio ci ricordano di nominare il femminile, gli studi sul sessismo nei libri di testo sono da poco sfociati con nuovi testi “attenti alla parità”, con contributi importanti di ricercatrici che da anni si occupano del tema, le associazioni di giornaliste fanno sentire la loro voce e la sensibilità generale di fronte al tema è aumentata. Alcuni uomini manifestano contro la violenza maschile sulle donne e si pongono come alleati, ricercando una nuova maschilità, lontana dallo stereotipo dell’uomo forte, imperturbabile, avventuriero, atto a fornire consigli in tono paternalistico.
Abbiamo oggi un’eredità preziosa e forse l’otto marzo può essere un’occasione per conoscerla, per fare degli approfondimenti, magari anche per metterci in discussione e perché no, provare a rivedere la nostra storia personale e professionale in ottica di genere. “Qualcuno si è mai aspettato qualcosa da me per il solo fatto di appartenere al sesso maschile o femminile?” Spesso invito a porsi questa domanda. Non mi è mai capitato di sentir rispondere “assolutamente no”. La parità di genere ci riguarda. Ci riguarda nel profondo, riguarda noi, ha riguardato le vite dei/delle nostri/e antenati/e riguarda le vite dei nostri figli e delle nostre figlie. Poiché facciamo tutti parte della stessa cultura.
Sta a noi costruire una nuova eredità, poiché, usando le parole di Willis Harman “nella storia, i mutamenti fondamentali nelle società non emergono dai dettami dei governanti, né dai risultati delle battaglie, ma dal fatto che una gran quantità di persone cambiano la loro maniera di vedere le cose, a volte anche solo un poco.”